Archivio mensile:ottobre 2017

Loving Vincent, Van Gogh rivive

Per chi ama Vincent Van Gogh e l’arte in genere un’occasione più unica che rara: un film di animazione che ha impiegato più di cento artisti che hanno dipinto manualmente, uno per uno, i fotogrammi del film, più di 65.000 – come si faceva una volta quando i cartoni animati venivano disegnati a mano. Qui però i fotogrammi ridisegnano e dipingono i fotogrammi di un film girato con veri attori in scenari che riprendono e rielaborano i dipinti e lo stile e le atmosfere dell’artista che è una gioia ritrovare in movimento, quando sulle tele originali c’è già un’idea di movimento: i vortici nel cielo, le stelle pulsanti, i campi di grano mossi dal vento, i voli dei corvi…

Un film che riprende l’ipotesi secondo cui quello di Van Gogh non sia stato un suicidio ma un omicidio, quindi è anche un piccolo giallo che indaga dettagli, sugli ultimi giorni di vita dell’artista, sconosciuti ai più. Operazione anomala ma assai interessante e sicuramente vincente. E’ anche divertente cercare di riconoscere gli attori che hanno fatto da modelli ai personaggi, benché interpreti non di fama mondiale ma certamente noti a cinefili e teledipendenti: Saoirse Ronan è la più nota, ex adolescente prodigio del cinema inglese; Aidan Turner e Eleanor Tomlinson li si è visti protagonisti della bella serie tv “Poldark”; Douglas Booth, che interpreta il protagonista alla ricerca della verità, è davvero un volto emergente della tv e del cinema inglese. Altri interpreti: Helen McCrory, Chris O’Dowd, Jerome Flynn, John Sessions, tutti attori britannici dato che la produzione è anglo-polacca, come la regia a quattro mani di Dorota Kobiela e Hugh Welchman. Il polacco Robert Gulaczkyk interpreta Vincent nei flashback dipinti in un morbido bianco e nero molto più vicino al realismo delle immagini cinematografiche: bella trovata stilistica che ci aiuta a distinguere il presente narrativo dal passato fatto di colori brillanti e pennellate vive, narrato dai testimoni che il protagonista via via incontra in questo suo viaggio formativo, secondo i canoni classici della narrativa.

Loving Vincent è la firma di Van Gogh alle sue lettere al fratello Theo, Con affetto Vincent. Ma oggi è anche un atto d’amore verso l’artista incompreso e geniale.

Blade Runner 2049, 30 anni invano

L’originale è del 1982 ed è ambientato nel 2019, praticamente ci siamo, ma per fortuna Los Angeles, e il mondo intero, non sono ridotti a quello sfacelo, ancora. Ridley Scott tre anni prima, nel 1979, ci aveva già sconvolti con Alien, e altri due anni prima, nel 1977, era cominciata la saga di Guerre Stellari di George Lucas: per noi, giovani di quell’epoca, è stata una vera rivoluzione cinematografica: la tecnologia ha fatto un salto qualitativo che non ha più avuto eguali, solo sviluppi, e noi siamo stati coevi e spettatori di eventi cinematografici eccezionali.

Oggi quel senso di meraviglia è difficile da ripetere. Noi ex giovani siamo già vaccinati e i giovani d’oggi – quant’è vecchio parlare così! – non hanno più il “senso della meraviglia” perché ci vivono dentro senza consapevolezza: hanno nelle mani una tecnologia che noi abbiamo visto nascere e svilupparsi, dalla macchina per scrivere con le copie in carta carbone e dal telefono attaccato al muro siamo passati, per gradi, allo smartphone sempre connesso col mondo intero. Connessione che ormai è dipendenza e ogni tot minuti questi ragazzi devono controllare i like su Facebook e le chat su Whatsapp col risultato che la sala buia del cinema qua e là si accende di fuochi fatui come emanazione reale della finzione sullo schermo.

Riflessione nostalgica a parte il film odierno è un topolino partorito dall’elefante del passato. Per decenni si è parlato di un seguito ma i seguiti di successo devono essere fatti a tambur battente, come dimostrano gli ottimi seguiti di Alien, ma tant’è. Visivamente c’è continuità, l’ambientazione è sempre quella ma presto scopriamo che c’è, ovviamente, del nuovo: la tecnologia odierna non è la nostra del 1982 e poiché nel film siamo trent’anni più avanti il nuovo non delude, è un immaginario visivo all’altezza dell’impegno.

Ma la storia delude: nel racconto originale di Philip K. Dick “Il Cacciatore di Androidi” Blade Runner, traducibile come Lame Volanti, è il corpo speciale di agenti che cacciano e “ritirano” gli androidi ribelli; protagonista era l’agente Deckard interpretato da Harrison Ford che fresco del successo di Guerre Stellari ha sbaragliato nomi del calibro di Dustin Hoffman, Gene Hackman, Sean Connery, Jack Nicholson, Paul Newman, Clint Eastwood, Tommy Lee Jones, Arnold Schwarzenegger, Al Pacino e Burt Reynolds. Gli android antagonisti erano Brion James, Joanna Cassidy, Daryl Hannah e l’olandese Rutger Hauer di cui ancora ricordiamo il monologo finale: “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…”

Il Blade Runner attuale è interpretato da Ryan Gosling e sappiamo subito che è un androide di nuova generazione, ubbidiente e affidabile, a caccia dei vecchi modelli ribelli ancora in circolazione, e qui subito si nota un refuso: i vecchi androidi erano programmati per durare 4 anni, dunque come è possibile che ce ne siano ancora in giro 30 dopo? Altro refuso: alla fine del primo film restava il forte dubbio che lo stesso Deckard fosse un androide e negli anni successivi Ridley Scott ne ha dato conferma, ma nel film odierno ritroviamo Deckard invecchiato e senza più traccia di sospetto sulla sua natura biologica, e meno male che lo ritroviamo nell’ultima mezzora di un film di due ore e mezza in cui si sbadiglia più volte: il plot è quello che è e una volta capito dove va a parare la noia si spalma su tutto il film nonostante le invenzioni visive e tecnologiche. Inoltre non c’è più un degno antagonista e a Hollywood si è passati dalla parità di genere – sempre auspicabile – all’invasione delle donne, e se prima era anche piacevole trovare un’eroina o una cattiva a far patire il protagonista ora è anche troppo noioso vedere Ryan Gosling circondato solo da belle donne in un’insalata di buone e cattive che le fa tutte uguali. Per scarto generazionale si distingue Robin Wright e le altre sono:
Ana de Armas, Sylvia Hoeks, Mackenzie Davis, Carla Juri e la Sean Young del 1982 qui in versione ologramma. I caratteri maschili sono: Edward James Olmos, già collega del protagonista nel primo film, qui in una casa di riposo come sempre accade a chi invecchia nei film americani; Dave Bautista, Lennie James e Jared Leto nel ruolo noiosissimo e non nuovissimo di scienziato-filosofo. Mi piace segnalare che sempre in ologramma ritroviamo Elvis Presley, Frank Sinatra e in un solo secondo anche Marilyn Monroe. Ridley Scott produce e dirige l’ottimo Denis Villeneuve già candidato all’Oscar per un altro fantascientifico: Arrival.

In sintesi: si poteva fare a meno di questo sequel che in ogni caso va visto per dovere di cronaca senza aspettarsi salti di qualità o nuove rivelazioni. Sorprese nulla, meraviglia poca, sbadigli tanti.

L’incredibile vita di Norman, un credibile Richard Gere

L’American Gigolò è definitivamente diventato un vecchietto. Norman è un anziano faccendiere, un mitomane che tesse trame apparentemente molto più grandi di lui ma nelle quali riesce sempre a districarsi con grande lucidità e assoluta protervia fino a ritrovarsi invischiato in un intrigo internazionale. Ma già dal titolo “L’incredibile vita…” e dal commento musicale siamo subito immersi in una commedia, benché amara, e addirittura in una favola, benché noir, dove Norman non è altro che la versione aggiornata e tragica nel mondo degli squali dell’economia e della politica, di Mary Poppins e Tata Matilda che dal nulla arrivano e nel nulla spariscono solo per mettere le cose a posto e dare gioia e serenità a una piccola comunità di prescelti.

Richard Gere, in questo personaggio apparentemente semplice ma assai complesso, è in forma smagliante: addirittura sembra rimpicciolirsi fisicamente per tratteggiare con grazia e misura questo Norman un po’ meschino e un po’ grandeur, che fa della piaggeria il suo stile di vita. All’inizio sembra uno di quei piccoli squali che vogliono farsi spazio nel mondo dei grandi ma via via è sempre più chiaro che il suo è un sogno positivo e che usa qualsiasi mezzo per metterlo in scena, costi quel che costi: il suo tornaconto personale non è quello di fregare gli altri ma solo essere parte del “sistema”, gratificarsi di diventare il motore di un ingranaggio più grande di lui perché con la vita è in credito di qualcosa che non sapremo mai, di una rivincita su un passato misterioso di cui poco ci importa perché lui è la Mary Poppins scesa dal cielo a far felici tutti.

Il film, scritto e diretto dall’israeliano Joseph Cedar con candidature agli Oscar per i suoi precedenti film e qui per la prima volta con produzione americana, si muove in un ambito culturale congeniale alla cultura del regista: quello degli ebrei americani, rabbini e finanzieri, mettendo in scena anche la politica e i servizi segreti israeliani, senza fare sconti a nessuno. Scandito da un interessante montaggio ma appesantito da una inutile divisione in capitoli ha un ritmo gradevole di girandola nella quale orbitano attorno a Richard Gere caratteristi e interpreti anche protagonisti in altri film: Lior Ashkenazi come coprotagonista, Michael Sheen, Steve Buscemi, Dan Stevens, Josh Charles, Harris Yulin, con una Charlotte Gainsbourg in un ruolo adulto senza le ansie e le pruderie degli ultimi ruoli in cui l’ha confinata Lars Von Trier. Tutti i personaggi si incastrano perfettamente nel puzzle disegnato dal Norman disegnato dal regista ma solo uno, che appare sotto finale e interpretato da Hank Azaria come emulo di Norman, risulta come fuori schema e come un compiacimento di troppo in un film che non è perfetto ma che merita il costo del biglietto per l’interpretazione di Richard Gere e per la gustosa favola nera che ci racconta.