Ovviamente viene subito da pensare: Ecco l’ennesimo film sulla terza età così tanto di moda in questo decennio grazie ai pensionati che vanno volentieri al cinema a vedere i loro divi invecchiati con loro, e quindi ecco i successi di commedie agrodolci tipo “Marigold Hotel” ma anche di film drammatici come “Amour” di Michael Haneke Palma d’Oro a Cannes 2012 e poi Oscar miglior film straniero e migliore attrice: insomma la vecchiaia ha molto da raccontare, per fortuna. Ma trattandosi di Paolo Sorrentino è semplicistico pensare a questi presupposti: l’uomo, nato romanziere e molto autoreferenziale, racconta solo il suo, e con stile. Uno stile tutto suo: da autore, appunto. E togliamoci di mezzo la sterile polemica dei premi mancati a Cannes 2015 dove “Youth” era in concorso assieme a “Il Racconto dei Racconti” di Matteo Garrone e “Mia Madre” di Nanni Moretti, che dei tre è quello che mi è piaciuto meno ma che ha vinto il Premio Ecumenico perché dove c’è sofferenza ecumenica arriva sempre questo premio a riprova del fatto che la religione cattolica è la religione che santifica il dolore. Detto questo, Sorrentino se l’è presa a male perché è uno che non sa perdere e i tanti premi lo hanno rassicurato nella sua arroganza, ma questo suo film è bellissimo e del terzetto è quello che mi è piaciuto più, perché oltre all’incanto, che ho ritrovato nel film di Garrone, mi ha trasmesso anche ispirazione, che è pensiero in movimento rispetto al pensiero statico ed estatico dell’incantamento.
La storia è semplice: in un albergo svizzero dove fra saune e massaggi vanno a ritemprarsi anziani e ricconi di mezzo mondo, si ritrovano una coppia di amici, Michael Caine che superlativamente è un musicista ritiratosi dalle scene e in ritiro anche dal consesso umano e dal mondo intero, è l’immagine del vecchio che attende solo la morte: ostinatamente rifiuta la proposta di un libro biografico in Francia e addirittura l’insistente offerta di un emissario della Regina Elisabetta che vuole un suo concerto per il compleanno del principe consorte; in contrappunto il personaggio altrettanto magistralmente interpretato da Harvey Keitel sembra ancora giovane dinamico e propositivo, e circondato da giovani co-sceneggiatori sta scrivendo il suo ultimo film, quello che lui definisce il suo testamento spirituale e per il quale vuole scritturare una vecchia diva, ignorante e di talento come vuole il luogo comune, da lui lanciata in gioventù. Le giornate passano tutte uguali in un equilibrio di simmetrie scenografiche e cinematografiche in cui Sorrentino è maestro: l’asettico albergo svizzero e la ripetitività dei rituali e il distacco dal mondo sono gli stessi in cui si muoveva Toni Servillo in “Le Conseguenze dell’Amore” e il ritiro artistico o l’incapacità creativa e il disincanto sono gli stessi della rockstar/bambino di Sean Penn in “This Must Be the Place” ma anche dello scrittore Toni Servillo in “La Grande Bellezza”. Poi le storie evolvono e dentro i girotondi apparentemente sempre uguali si aprono spiragli e fessure, fratture silenziose e inattese che aprono altri mondi e altre prospettive: il camorrista Servillo si annota in un taccuino di “non sottovalutare le conseguenze dell’amore” e Sorrentino ci ricorda che tutto ha una conseguenza e che questa conseguenza non sempre è quella che ci aspettavamo, sia come essere umani che come suoi spettatori. La giovinezza di questo suo ultimo film non è dunque dove sembrava all’inizio e i ruoli in commedia si capovolgono attraverso la tragedia.
Intorno: Rachel Weisz, che per lavoro “fa la figlia e l’assistente di suo padre” in un ulteriore cortocircuito/girotondo, ha un rapporto ovviamente conflittuale con l’ingombrante padre musicista ed è anche stata appena lasciata dal marito e la sua innata tentazione di tornare a rifugiarsi nell’asfittico bozzolo familiare viene messa in discussione dallo sguardo di un improbabile ammiratore, un alpinista interpretato dallo scrittore Robert Seethaler, il cui sguardo seguendo finirà appesa nel vuoto, quel vuoto che non aveva mai sperimentato. Paul Dano è un giovane divo cinematografico, anch’egli in crisi professionale perché riconosciuto solo per un personaggio fantasy in cui si sente ancora intrappolato e che sta lì in ritiro spirituale studiando i vecchi e i malati per infondere verità umana ed emotiva al suo prossimo sorprendente personaggio. Jane Fonda entra ed esce dal film con una forte scena da gran diva, con accenti di rottura rispetto al clima rarefatto in cui ci eravamo rilassati, volgare e violenta, brutale e sgradevole, è il boccino con cui impatta il regista Keitel e che gli fa cambiare percorso e prospettive, le sue conseguenze dell’amore. Alex MacQueen è l’imbarazzato e imbarazzante emissario della regina che torna e torna a infastidire il vecchio musicista. Mădălina Diana Ghenea è una Miss Universo non così cretina come sembra; i co-sceneggiatori Tom Lipinski, Chloe Pirrie, Alex Beckett, Nate Dern e Mark Gessner non sono così intelligenti come sembrano; Luna Zimic Mijovic è la massaggiatrice saggia. Altri ospiti dell’albergo sono un grassissimo sofferente vecchio calciatore simil-Maradona (per cui Sorrentino ha una passione innata e che cita anche in “La Grande Bellezza”), un monaco buddista che medita per levitare, una gelida coppia di anziani che non comunicano e sui quali la coppia di amici scommette, una escort disadattata, una bambina adulta…
Le cose non sono come sembrano, i personaggi nascondono altre nature e Sorrentino abilmente cela le sue carte e le scopre poco a poco in un film rigoroso affascinante commovente e sorprendente che purtroppo, come leggo sui social, si sta attirando le antipatie preconcette che il suo autore probabilmente merita come uomo: le conseguenze del disamore.