Archivio mensile:Maggio 2015

“Youth – La Giovinezza”, e le sue conseguenze…

Ovviamente viene subito da pensare: Ecco l’ennesimo film sulla terza età così tanto di moda in questo decennio grazie ai pensionati che vanno volentieri al cinema a vedere i loro divi invecchiati con loro, e quindi ecco i successi di commedie agrodolci tipo “Marigold Hotel” ma anche di film drammatici come “Amour” di Michael Haneke Palma d’Oro a Cannes 2012 e poi Oscar miglior film straniero e migliore attrice: insomma la vecchiaia ha molto da raccontare, per fortuna. Ma trattandosi di Paolo Sorrentino è semplicistico pensare a questi presupposti: l’uomo, nato romanziere e molto autoreferenziale, racconta solo il suo, e con stile. Uno stile tutto suo: da autore, appunto. E togliamoci di mezzo la sterile polemica dei premi mancati a Cannes 2015 dove “Youth” era in concorso assieme a “Il Racconto dei Racconti” di Matteo Garrone e “Mia Madre” di Nanni Moretti, che dei tre è quello che mi è piaciuto meno ma che ha vinto il Premio Ecumenico perché dove c’è sofferenza ecumenica arriva sempre questo premio a riprova del fatto che la religione cattolica è la religione che santifica il dolore. Detto questo, Sorrentino se l’è presa a male perché è uno che non sa perdere e i tanti premi lo hanno rassicurato nella sua arroganza, ma questo suo film è bellissimo e del terzetto è quello che mi è piaciuto più, perché oltre all’incanto, che ho ritrovato nel film di Garrone, mi ha trasmesso anche ispirazione, che è pensiero in movimento rispetto al pensiero statico ed estatico dell’incantamento.

La storia è semplice: in un albergo svizzero dove fra saune e massaggi vanno a ritemprarsi anziani e ricconi di mezzo mondo, si ritrovano una coppia di amici, Michael Caine che superlativamente è un musicista ritiratosi dalle scene e in ritiro anche dal consesso umano e dal mondo intero, è l’immagine del vecchio che attende solo la morte: ostinatamente rifiuta la proposta di un libro biografico in Francia e addirittura l’insistente offerta di un emissario della Regina Elisabetta che vuole un suo concerto per il compleanno del principe consorte; in contrappunto il personaggio altrettanto magistralmente interpretato da Harvey Keitel sembra ancora giovane dinamico e propositivo, e circondato da giovani co-sceneggiatori sta scrivendo il suo ultimo film, quello che lui definisce il suo testamento spirituale e per il quale vuole scritturare una vecchia diva, ignorante e di talento come vuole il luogo comune, da lui lanciata in gioventù. Le giornate passano tutte uguali in un equilibrio di simmetrie scenografiche e cinematografiche in cui Sorrentino è maestro: l’asettico albergo svizzero e la ripetitività dei rituali e il distacco dal mondo sono gli stessi in cui si muoveva Toni Servillo in “Le Conseguenze dell’Amore” e il ritiro artistico o l’incapacità creativa e il disincanto sono gli stessi della rockstar/bambino di Sean Penn in “This Must Be the Place” ma anche dello scrittore Toni Servillo in “La Grande Bellezza”. Poi le storie evolvono e dentro i girotondi apparentemente sempre uguali si aprono spiragli e fessure, fratture silenziose e inattese che aprono altri mondi e altre prospettive: il camorrista Servillo si annota in un taccuino di “non sottovalutare le conseguenze dell’amore” e Sorrentino ci ricorda che tutto ha una conseguenza e che questa conseguenza non sempre è quella che ci aspettavamo, sia come essere umani che come suoi spettatori. La giovinezza di questo suo ultimo film non è dunque dove sembrava all’inizio e i ruoli in commedia si capovolgono attraverso la tragedia.

Intorno: Rachel Weisz, che per lavoro “fa la figlia e l’assistente di suo padre” in un ulteriore cortocircuito/girotondo, ha un rapporto ovviamente conflittuale con l’ingombrante padre musicista ed è anche stata appena lasciata dal marito e la sua innata tentazione di tornare a rifugiarsi nell’asfittico bozzolo familiare viene messa in discussione dallo sguardo di un improbabile ammiratore, un alpinista interpretato dallo scrittore Robert Seethaler, il cui sguardo seguendo finirà appesa nel vuoto, quel vuoto che non aveva mai sperimentato. Paul Dano è un giovane divo cinematografico, anch’egli in crisi professionale perché riconosciuto solo per un personaggio fantasy in cui si sente ancora intrappolato e che sta lì in ritiro spirituale studiando i vecchi e i malati per infondere verità umana ed emotiva al suo prossimo sorprendente personaggio. Jane Fonda entra ed esce dal film con una forte scena da gran diva, con accenti di rottura rispetto al clima rarefatto in cui ci eravamo rilassati, volgare e violenta, brutale e sgradevole, è il boccino con cui impatta il regista Keitel e che gli fa cambiare percorso e prospettive, le sue conseguenze dell’amore. Alex MacQueen è l’imbarazzato e imbarazzante emissario della regina che torna e torna a infastidire il vecchio musicista. Mădălina Diana Ghenea è una Miss Universo non così cretina come sembra; i co-sceneggiatori Tom Lipinski, Chloe Pirrie, Alex Beckett, Nate Dern e Mark Gessner non sono così intelligenti come sembrano; Luna Zimic Mijovic è la massaggiatrice saggia. Altri ospiti dell’albergo sono un grassissimo sofferente vecchio calciatore simil-Maradona (per cui Sorrentino ha una passione innata e che cita anche in “La Grande Bellezza”), un monaco buddista che medita per levitare, una gelida coppia di anziani che non comunicano e sui quali la coppia di amici scommette, una escort disadattata, una bambina adulta…

Le cose non sono come sembrano, i personaggi nascondono altre nature e Sorrentino abilmente cela le sue carte e le scopre poco a poco in un film rigoroso affascinante commovente e sorprendente che purtroppo, come leggo sui social, si sta attirando le antipatie preconcette che il suo autore probabilmente merita come uomo: le conseguenze del disamore.

“Il Racconto dei Racconti”, finalmente sullo schermo

E’ un film grandioso ma sono uscito dal cinema con qualche perplessità. Solo col passare delle ore sentivo che le sensazioni e le emozioni del racconto cinematografico continuavano a crescere nella mia mente e a fruttificare pensieri e idee e altre sensazioni ancora, e questo succede con un gran film o un gran libro, comunque un gran racconto. Le perplessità riguardavano fondamentalmente il mio essere uno spettatore di buone frequentazioni cinematografiche ma anche convinto consumatore di blockbusters americani cui va il primo pensiero viziato da tecniche di racconto collaudatissime ma anche tutte uguali. Questo invece è tutto un altro raccontare e tutto un altro cinema, d’autore appunto, ma soprattutto di cultura europea, quella cultura fantastica delle novelle e delle fiabe antiche cui lo stesso signor Walt Disney si è ispirato per i suoi grandi capolavori di animazione. Oggi, peraltro, Hollywood sta sfornando uno dietro l’altro dei film che rivisitano i gloriosi protagonisti di quelle fiabe raccontandoli da un altro punto di vista e col gusto dei tempi, e questo è normale perché si è sempre fatto, perché Charles Perrault e i fratelli Grimm l’hanno fatto ispirandosi a “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile che a sua volta si è pure ispirato a tradizioni ancora più antiche e popolari: insomma, nulla si inventa e tutto si riscrive.

La differenza sta tutta nella distanza che c’è fra meraviglia e incanto, dove la meraviglia è quella che ci suscita la visione di filmoni pieni di effetti speciali e narrazioni politicamente corrette mentre l’incanto è quello che prende in sala ad assistere alle tre favole di questo “Cunto”: “La Regina”, “La Pulce” e “Le Due Vecchie”. Il ritmo è lento, incantatorio appunto, e avvolgendo ci accompagna dentro questa visione mirabile fatta di scenari fantastici che però sono assolutamente reali e dislocati tutti in Italia, dove si muovono personaggi che non sempre hanno la battuta pronta dello sceneggiatore americano ma i silenzi e gli sguardi distanti di chi vive d’incanto e l’incanto racconta. Le storie sono semplici racconti morali non appesantite da quelle troppe spiegazioni ad uso e consumo dello spettatore che fra popcorn e bibita e smartphone sempre acceso dovrebbe avere almeno quattro mani come l’alieno che è. Il fantastico accade perché così è, e l’orrore di certi momenti è quello tipico delle fiabe antiche che venivano raccontate davanti al focolare proprio per far paura ai bambini e farli andare a letto col batticuore e la lezione morale che così avrebbero ricordato a lungo: oggi tutto questo viene filtrato da una malintesa e spesso millantata correttezza che volendo rispettare bambini e diversità, donne e categorie protette, fa di tutto una poltiglia insapore.

I film di Matteo Garrone, tranne le sperimentazioni degli esordi, li ho visti tutti: “L’Imbalsamatore” 2002; “Primo Amore” 2004; “Gomorra” 2008 con cui arriva al grande successo sulla scia del libro di Saviano e del Gran Prix a Cannes che bissa nel 2013 con “Reality”. Posso dunque affermare che la sua tematica è proprio l’orrore della diversità sia fisica che morale: il nano cattivo protagonista de “L’Imbalsamatore”, l’amore malato e il corpo smagrito di “Primo Amore”, tutti i camorristi di “Gomorra” e l’orrore culturale di “Reality”. Dunque “Il Racconto dei Racconti” segue una sua linea precisa e dopo tanti premi e riconoscimenti attinge alla ricchezza della nostra narrativa, all’orrore degli orrori, allo “Cunto de li cunti” e fa quel necessario salto di qualità girando in inglese con un cast internazionale ma non solo per travalicare i confini europei e andare a – mi auguro – minacciare da vicino la troppo disinvolta e collaudata fantasy americana: proprio perché girato in inglese potrebbe accedere agli Oscar e premi tecnici, come fotografia e scenografia e costumi e trucco, potrebbero ricevere se non premi almeno candidature.

Come l’attenzione alle ambientazioni che non ha niente da invidiare a “Il Signore degli Anelli”, il cast è scelto con gran cura e anche nei ruoli di contorno o nelle figurazioni di lusso c’è quel gusto per i volti e le caratteristiche fisiche che mi ha ricordato il cinema iper-realista ma anche fantastico di Pier Paolo Pasolini. La Regina della prima novella è una bellissima e gelida Salma Hayek che sacrifica la vita del suo Re, John C. Reilly, pur di generare un figlio attraverso un sortilegio suggerito dal negromante Franco Pistoni e che darà vita anche a un gemello da un’altra madre, la serva Laura Pizzirani: i gemelli sono Christian e Jonah Lees che Garrone ha voluto albini; nel cast c’è anche una coppia di sorelle, non gemelle: Jessie Cave che è Fenizia in “La Regina” e Bebe Cave che è la Principessa Viola protagonista di “La Pulce” insieme a Toby Jones che è il Re suo padre che la cede a un orco, Guillaume Delaunay gigante senza trucco e senza inganno, per insipienza; Nicola Sloane è l’anziana damigella dal volto spigoloso e antico; Vincent Cassel è il principe piacione della terza novella, “Le Due Vecchie” che truccate ancora più da immonde vecchie sono Shirley Henderson e Hayley Carmichael che ringiovanita attraverso il sortilegio di una strega, Kathryn Hunter, è interpretata da quella Stacy Martin che nel “Nynphomaniac” di Lars Von Trier non si capisce se scopa tutto il tempo con gli effetti speciali o con cazzi reali, e io sono per la seconda. Fanno da cornice una compagnia di circensi capitanata da Massimo Ceccherini che praticamente non parla e Alba Rohrwacher già lanciata nel cinema internazionale. Completano il cast italiano, per onor di cronaca, Renato Scarpa, Giselda Volodi già internazionalizzata in “Grand Budapest Hotel” e Giuseppina Cervizzi che era con Garrone in “Reality” e abbiamo rivisto da poco in “Se Dio Vuole”.

“Il Racconto dei Racconti”, tiepidamente applaudito a Cannes, dovrà vedersela con gli altri due forti italiani: “Mia Madre” di Nanni Moretti, altra star della Croisette, e soprattutto con “Youth – La Giovinezza” di Paolo Sorrentino, molto applaudito e con il carico di un Oscar per “La Grande Bellezza” in vetrina, già Premio della Giuria a “Il Divo” in quello stesso 2008 in cui Garrone vinse il Gran Prix con “Gomorra”: insomma, senza voler considerare tutti gli altri concorrenti, la sfida fra gli italiani è cruenta.

Poiché il “Gomorra” di Garrone ha dato vita all’eccellente serie tv di Sky ho fatto due più due e ho immaginato che “Lu Cunto de li Cunti” con tutto il suo materiale narrativo potrebbe far creare un’altra serie di successo: ho visto bene, leggo sul web che lo stesso regista ci sta già pensando… 🙂

“Mia Madre”, gran film che zoppica un po’

Nanni Moretti, 12 lungometraggi in quasi 40 anni, aggiunge un secondo inatteso capitolo al suo personale cinema del dolore che inaugurò nel 2001 col bellissimo “La stanza del figlio” Palma d’Oro a Cannes e David di Donatello in cui raccontava il dolore di una famiglia borghese per la perdita accidentale del figlio e in cui immagino – poiché tutto il suo cinema è biografia o biografia traslata o biografia romanzata – abbia voluto raccontare in fiction i suoi personali tormenti di un padre che teme la perdita del/la proprio/a figlio/a: chi è padre, anche solo putativo o immaginario come me, sa di cosa parlo. Oggi invece Moretti racconta e romanza la perdita reale della madre avvenuta nel 2010, quella signora Agata Apicella da cui lui prese il cognome per il suo più longevo alter ego cinematografico, il Michele Apicella che è tornato sotto varie spoglie in “Io sono un autarchico”, “Ecco Bombo”, “Sogni d’oro”, “Bianca” e “Palombella rossa”. Agata Apicella compare fisicamente nel suo “Aprile” in cui Moretti smette i panni di Michele Apicella per essere davvero se stesso in quel film/documentario in tre episodi e dedicato al figlio Pietro. In “Mia Madre” Agata diventa invece Ada pur restando una ex professoressa di lettere e latino e Nanni, da vero artista, si mette da parte nel forte ruolo del fratello della protagonista alla quale trasferisce il suo ruolo di regista cinematografico nevrotico che così riesce anche a prendere anche in giro ironizzando su vezzi e manie: il gioco della trasfigurazione riesce perfettamente grazie anche all’eccellente interpretazione di Margherita Buy, nevrotica quanto basta fra set e vita reale e profondamente tormentata da quei sensi di colpa che ci prendono di fronte alla perdita di un genitore: quello che di sbagliato abbiamo fatto e quello che di buono abbiamo tralasciato di fare per leggerezza o noncuranza. Moretti racconta il suo dolore dolore personale, come è sempre personale tutta la sua cinematografia, in modo da farne dolore universale in cui riconoscere gli stessi dolori e tormenti cui siamo passati anche noi. La madre sofferente è interpretata da Giulia Lazzarini che non è al suo debutto cinematografico ma è come se lo fosse per l’assoluta perfezione della sua interpretazione da quella grandissima attrice che è ma che pochi conoscono: intorno a me sentivo dei meravigliati commenti positivi che si possono riassumere in: “Ma è davvero brava sta vecchia, ma chi è?” perché pochi ne conoscono la carriera. Nel film ci sono però grossi difetti e quello che mi salta subito agli occhi è il personaggio dell’attore americano affidato a uno spaesato e poco convinto John Turturro che si presta a fare la star simpaticona ma arrogante di cui alla fine scopriremo però le reali debolezze: non ce n’era bisogno. Capisco che il personaggio serve al film per raccontare la vicenda professionale della regista Margherita (la Buy col suo vero nome a riprova del fatto che Moretti pensava proprio a lei scrivendo il film) e anche per tessere dei siparietti da alleggerimento alla trama principale, ma la sensazione è che il personaggio dell’attore americano abbia un po’ cannibalizzato l’intero film e il risultato è un pasticcio poco gustoso e ancor meno digeribile che anziché alleggerire spezza il ritmo di un racconto che avrebbe potuto (dovuto?) essere asciutto e rigoroso come è stato “La stanza del figlio”. L’altro punto debole del film è il montaggio disordinato (ma si dice ellittico) di momenti diversi: flashback dal passato in cui Margherita rivive momenti con la madre che non potrà più cambiare mischiati a sogni notturni e visioni diurne di incubi e timori sempre relativi a sua madre… sta di fatto che fra flashback e sogni e visioni alla fine non ci si raccapezza più e la sensazione è che il montaggio non segua il rigore di una sceneggiatura quanto piuttosto l’incollatura estemporanea ed emotiva di pezzi girati all’occasione, e ancora faccio riferimento ai commenti in sala: “Scusa ma secondo te è lei che lo sta pensando o è quello che invece sta succedendo davvero e lei non lo sa?” il riferimento è alla scena, bella in sé, in cui la Madre esce dall’ospedale in camicia da notte e si perde nella città, un po’ come il Michel Piccoli di “Habemus Papam”. Ma se è un’autocitazione è incollata male, se invece è un timore della figlia intrappolata sul set non si capisce. Ma tant’è, il film risulta più faticoso che doloroso e si riscatta solo per le belle interpretazioni, compresa quella di Moretti che per me non è mai stato un grande attore, e per l’universalità dei momenti dolorosi che aprono una porta di speranza sul bellissimo finale affidato a una frase della madre e che qui non ripeto per non togliere quest’ultima bellezza al film che merita comunque grande attenzione.