Archivio mensile:febbraio 2015

Birdman, o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza

Attori e registi e scrittori e artisti e performer, aspiranti tali o presunti tali, andatelo a vedere tutti. Potevo essere politicamente corretto e dire anche attrici registe e scrittrici ma questo mi serve per dire che una delle tante chiavi di lettura di questo ricchissimo film è che lo sguardo del regista/autore è tutto al maschile, è un duello virile fra due attori per vedere chi ce l’ha più lungo, e le figure femminili sono tutte, ahimè mi spiace dirlo, di supporto per meglio disegnare la figura di questo grandioso personaggio meravigliosamente interpretato da un Michael Keaton sessantenne e stazzonato che non vedevamo sugli schermi da un bel po’: già Golden Globe e candidatura agli Oscar. Mi rivolgo ad attori e registi perché questo è anche un film sull’arte della recitazione: sul cinema – di cui mette in berlina vizi e vezzi delle superproduzioni che mietono vittime fra il pubblico e i loro portafogli sfornando blockbuster pieni di effetti speciali e vuoti di senso; sul teatro – a cui guarda con vero amore anche quando lo osserva criticamente e di cui mette sotto accusa, anche qui vizi e vezzi, di certa critica supponente e autoreferenziale, e di un certo tipo di attore, qui incarnato dal personaggio del grandioso Edward Norton, che gioca a fare il maledetto geniale e invece non è altro che un cialtrone opportunista.

La storia sarebbe anche semplice da riassumere: Riggan Thomson, star in declino che ha legato il suo nome alla trilogia cinematografica del fantaeroe Birdman, vuole riciclarsi in teatro come vero artista impegnandosi in una produzione a Broadway di cui è oltre a essere protagonista è anche regista e scrittore del copione adattato da un romanzo di successo di Raymond Carver. Ovviamente il nostro, pazientemente ma anche cinicamente assistito dal suo avvocato/agente interpretato da Zach Galifianakis (co-star della trilogia cogliona di “Una notte da leoni”), è anche in serie difficoltà economiche ed ha una famiglia normalmente e anche banalmente disastrata con ex moglie (Amy Ryan) e figlia ex tossica che, interpretata da Emma Stone, è il personaggio femminile meglio delineato che infatti porta a casa le nomination al Golden Globe e all’Oscar. Gli altri personaggi femminili sono le due colleghe di scena: una, che ovviamente è la nuova comprensiva compagna (Andrea Riseborough) e l’altra, cui si presta Naomi Watts (con Iñárritu in “21 grammi”) è una quarantenne già mezza frollata che su quel palcoscenico sta finalmente realizzando i suoi sogni di bambina: patetica quanto basta. Ma conoscendo Alejandro González Iñárritu e la sua cinematografia fatta  (compreso questo) di soli cinque grandi titoli (“Amores Perros”, “Babel” e “Biutiful”) è evidente che il geniale messicano, dopo essere passato attraverso sceneggiature e film assai complessi sia nella scrittura che nella confezione e nel montaggio, che sempre hanno avuto successo di critica ma un po’ meno di pubblico, stavolta ha scritto una trama comprensibile a tutti ricca però di sottotracce per il palati più raffinati da mettere al servizio di una realizzazione tecnica virtuosistica e assai complessa e dal risultato affascinante per tutti, critica e pubblico sia colto che impreparato: trattando di teatro e ambientato dentro e attorno a un teatro il copione è recitato come se si fosse a teatro, tutto di filato, in un unico lunghissimo piano sequenza che in realtà monta abilmente insieme differenti ma altrettanto lunghi e difficili movimenti di macchina in un’azione che ci avvolge dall’inizio alla fine fra camerini e quinte e palcoscenico e dintorni (Times Square dove il protagonista corre in mutande) in cui viene inquadrato en passant anche il batterista che esegue come se fosse dal vivo la colonna sonora del film: straordinario. In cinema si ricordano altri soli due titoli di film girati in piano sequenza: “Nodo alla gola” di Alfred Hitchcock e “Arca russa” di Aleksandr Sokurov.

Poi c’è il resto, la psiche e la favola, gli effetti speciali che Iñárritu ha l’ardire di criticare e di usare al contempo in una sequenza inattesa e mozzafiato che sotto finale libera e rivela la nevrosi del protagonista che durante tutto il film battibecca col suo alter ego Birdman, che lo vuole fuori da quella fogna di teatro per ridargli vita al cinema, mentre esprime segretamente i suoi poteri di telecinesi sin dalla sequenza di apertura in cui lo vediamo meditare levitando a mezz’aria. E c’è spazio anche per un presagio di catastrofe con una palla di fuoco che attraversa il cielo e una moria degli spiaggiati granchi più antichi del mondo: se non si salvano più neanche loro non c’è più speranza per nessuno… se non nell’intima fede in se stessi e nei propri sogni, come sembra indicarci un finalino consolatorio che ci strappa un sorriso e un sospiro di sollievo.

Fra le righe: ricordiamo che Michael Keaton, dopo aver interpretato “Beeteljuce” di Tim Burton, con lo stesso altro geniale regista nel 1989 indossa la tuta del supereroe “Batman” che poi come una puttana da quattro soldi e troppi milioni di dollari di budget è passato di attore in attore e di regista in regista fino a essere ripreso in toto e ridisegnato in noir da Christopher Nolan e Christian Bale. Quindi è lecito leggere nell’interpretazione dell’odierno Keaton un’adesione d’antan al personaggio dell’attore anziano in crisi da effetti speciali. Anche Edward Norton con questa sua interpretazione rimarca la sua personale distanza da quel genere di film dato che, inciampatovi nel 2008 come “Incredibile Hulk” finì in causa con i produttori che avevano tagliato dal film buona parte della sua prestazione di attore a favore di vuoti effetti speciali: peccati che si scontano. E c’è da dire, concludendo, che se il Batman di Burton/Keaton era un bel film, antesignano di una serie che si sputtanò cammin facendo, l’Incredibile Hulk di Leterrier(chi è costui?)/Norton era davvero brutto.

American Sniper, un eroe lontano da noi

E’ un instant movie basato sulla biografia di un navy seal, Chris Kyle, che come cecchino (sniper) è divenuto una leggenda fra i suoi commilitoni e anche fra i nemici talebani che hanno messo su di lui una taglia. Un film necessario e anche ovvio per la cultura e la cinematografia americana che così onora i suoi eroi ma anche gli antieroi di cui si è occupata la cronaca, facendo al contempo spettacolo e audience. Uno di quei tanti film che generalmente sono prodotti da e per la televisione e che se arrivano sui nostri schermi sono altrettanto quelli televisivi. Ma questo fa il salto di qualità per l’interpretazione del bravissimo Bradley Cooper che ne è anche produttore esecutivo e per la regia firmata da Clint Eastwood che, pur in linea con i suoi standard sempre molto alti, non aggiunge nulla alla sua personale cinematografia.

Di questo eroe americano ci rimane estraneo il suo totale limpido impegno per la patria dato che noi italiani l’unico impegno che siamo in grado di prendere per la patria è quello di cercare sempre di fregarla perché al contempo ce ne sentiamo sempre fregati: è un rapporto di fiducia e di adesione che a noi manca e la cui indagine ci porterebbe troppo lontano e da un’altra parte rispetto alla chiacchierata su questo film che da mediocre si fa bello per l’impegno artistico che vi è profuso.

Non è neanche cinematograficamente nuovo lo stress post traumatico di cui soffre il protagonista una volta tornato alla vita civile e alla famiglia, semmai è nuovo il modo di raccontarlo che ne fa, piuttosto che il solito disadattato a volte allucinato e altre volte violento, ne fa una maschera gelida e apparentemente priva di emozioni, perché tutte trattenute nell’animo saldo dell’eroe e nell’interpretazione di Bradley Cooper. Uno spunto interessante sarebbe il duello a distanza che il cecchino americano intraprende col suo omologo cecchino talebano, ma nel film è solo accennato perché l’urgenza narrativa primaria è la biografia di Chris Kyle e l’opportunità di un racconto bellico altrimenti epico si ammoscia fra le lacrime e le giuste trepidazioni della moglie, interpretata con altrettanta adesione da Sienna Miller.

All’uscita del film si è parlato di immagini crude e violente ma a mio avviso sono solo chiacchiere per creare interesse al botteghino dato che non sono più crude e violente di moltissimi altri film. Altri interpreti degni di nota sono Luke Grimes e e Jake Mc Dorman come amici e commilitoni dell’eroe americano che ci lascia con un po’ di nervoso e un po’ di invidia perché, diciamocelo pure, noi non abbiamo più né patria né eroi. E neanche più santi e navigatori visto che dei primi il Vaticano fa inflazione e i secondi sono ormai piccoli traghettatori che si vanno a incagliare all’Isola del Giglio…

Exodus, Dei e Re – ovvero il misticismo cede il passo al fantasy

Inevitabilmente nella memoria rimane e rimarrà sempre “I Dieci Comandamenti” di Cecil B. De Mille con Charlton Heston e Yul Brinner. Sarà perché era uno dei primi colossal pieno di sorprendenti effetti speciali oppure sarà perché eravamo bambini, sia in senso anagrafico che per cultura cinematografica, e quel capolavoro rimane un pilastro della nostra formazione. E si va a vedere questo “Exodus” anche orecchiando le polemiche sull’etnicità degli interpreti (il faraone ha gli occhi azzurri) e sul misticismo rivisitato in chiave logica e moderna. Comunque sia il film mantiene ciò che promette: grande spettacolarità e altissimo senso visivo ed estetico, a cominciare dal primissimo quadro d’apertura con gli schiavi ebrei al lavoro nei cantieri per la costruzione dei monumenti e poi le scenografie, i costumi, le battaglie e tutto quel che segue non fa che riempire gli occhi di meraviglie. Del resto Ridley Scott sa quello che fa e qui ricordo alcuni dei suoi successi: “Alien”, “Blade Runner”, “Black Hawk Down”, “Thelma e Louise”, “Il Gladiatore”. E proprio del Gladiatore riprende i protagonisti antagonisti e li trasferisce, con medesimi motivazioni e turbamenti, nella storia dell’esodo biblico degli Ebrei dall’Egitto. Il gladiatore era un uomo che lottava per la sua libertà qui Mosè è un uomo che lotta per la libertà del suo popolo; l’antagonista era l’imperatore Commodo e qui è il faraone Ramses con medesima ferocia mista a inettitudine ed egocentrismo venato di dubbi esistenziali: un personaggio ricco di sfumature che offre al suo interprete oggi, Joel Edgerton, come a quello di Commodo, Joaquin Phoenix, un copione su cui mostrare grandi capacità interpretative. Peccato solo, come è stato detto, che questo faraone abbia gli occhi azzurri e che la sua abbronzatura sia troppo evidentemente momentanea. Al suo contrario, questo Mosè, è interpretato da Christian Bale con l’aplomb che ha fatto di lui un interprete sempre lucido e profondo da premio Oscar e che sia il tormentato Batman dei fumetti o il Mosè della Bibbia poco cambia, dato che oggi Bibbia e fumetti sembrano diventati interscambiabili. Mi spiego: assodato che nel suo film Ridley Scott riporta in scena la sua epica battaglia fra due diverse e interdipendenti forti personalità, la preoccupazione è quella di tenere il piano mistico e il sentimento religioso prudentemente sullo sfondo, e non solo perché è tempo di integralismi e suscettibilità religiose ma proprio in quanto tutti quanti noi, occidentali e disincantati, abbiamo sostituito nel nostro immaginario la fede nella religione (qualunque essa sia) con la fede nella fantasia: oggi siamo più disposti a credere ad alieni, zombi, vampiri, lupi mannari, elfi, hobbit, fate e angeli di ogni tipo che non a un solo dio (qualunque esso sia). Sarà che le storie che le nostre religioni ci raccontano sono troppo vecchie e risentite e non ci affascinano più. Sarà che abbiamo imparato a mettere in discussione qualsiasi cosa e di qualsiasi cosa facciamo sempre un’analisi logica: così in questo film tutto ciò che è mistico viene messo sotto la lente della logica e si cerca di darne una spiegazione razionale: Mosè parla con Dio perché ha preso una botta in testa e quindi il Mosè di Christian Bale non ha il misticismo di quello di Charlton Heston che aveva il volto illuminato da Dio, né tanto meno si ha il coraggio di farne un invasato che ha preso un colpo in testa, ma è soltanto un uomo razionale che in modo altrettanto razionale cerca di spiegare a sé e agli altri la sua conversione. Un personaggio deludente e piccino piccino. Così le tavole dei dieci comandamenti non vengono scolpite dal fuoco divino ma da lui stesso sotto dettatura del dio che gli appare in sembianze di bambino: invenzione interessante ma non originalissima. Altrettanto sarà delle piaghe che sconvolgeranno l’Egitto e si cercherà di spiegarle secondo logica razionale anche se questa logica, a un certo punto, dovrà fare i conti col racconto biblico e farsi da parte nella notte in cui moriranno tutti i primogeniti: nel film del 1956 era un misterioso fumo verde che passava per i vicoli della città andando oltre le soglie segnate col sangue di agnello sacrificato e soffocando nel sonno tutti i primogeniti egiziani, qui è un’immane ombra che si stende sulla città e che fa pensare – perché già visto in altri film – all’ombra di un’enorme astronave aliena che però non c’è: la città cade semplicemente nel buio, tutti i fuochi e tutte le lucerne si spengono e i primogeniti smettono semplicemente di respirare. La stessa razionalità è stata applicata all’apertura delle acque del Mar Rosso: l’affascinante e mistica oltreché mitica sequenza de “I Dieci Comandamenti” qui è soltanto una lenta marea che scopre il fondo su cui si riversano torme di gabbiani per poi tornare improvvisa come l’enorme onda anomala di uno tsunami. Il film dunque, cercando di dare una logica a eventi inspiegabili e mitici, non fa che impoverirne la portata immaginifica, e la grandiosità delle scene e degli effetti speciali risulta gradevole alla vista ma totalmente vuota di emozioni.

Altre curiosità: nel 1956 i faraoni non avevano gli occhi dipinti perché a parere del regista il pubblico dell’epoca non avrebbe apprezzato; nel film odierno tutti gli egiziani a palazzo hanno gli occhi dipinti ma non Mosè, e chissà perché, dato che è cresciuto a palazzo come figlio adottivo del faraone Seti, oggi interpretato da John Turturro con autorevolezza e misura e che muore dopo dieci minuti di film lasciando al figlio Ramses regno e tormenti. Sua moglie Tuya, perfida madre di Ramses, la vediamo per altri dieci minuti ma frammentati in due ore e mezza di film, poco più che una comparsata per la Sigourney Weaver che per Ridley Scott è stata l’eroina di “Alien”. Sempre nel film del ’56 Nefertari, la bellissima moglie di Ramses, era Anne Baxter in un ruolo più corposo (era segretamente innamorata di Mosè) rispetto a quello odierno al quale presta il volto Golshifiteh Farahani. Séfora, la moglie di Mosè, oggi è la giovane e palpitante attrice emergente spagnola Marìa Valverde mentre all’epoca era l’avvenente bellona Yvonne De Carlo molto attiva nei peplum per la sua procacità. Completano il cast odierno: Ben Kingsley come vecchio saggio ebreo, Ben Mendelshon come vicerè infido, Aaron Paul come giovane ebreo che spia Mosè mentre parla da solo dato che per lui il dio-bambino è invisibile. Ultima chicca: Charlton Heston propose al regista De Mille che la voce di Dio fosse la sua dato che era come se Mosè sentisse quella voce nella sua mente, e così fu. Oggi Christian Bale battibecca con un bambino ed è tutto un altro cinema.