Archivio mensile:gennaio 2015

La Teoria del Tutto, dai buchi neri agli Oscar

E’ una storia d’amore. E’ la biografia del grande cosmologo affetto da atrofia muscolare progressiva ma è soprattutto una grande edificante storia d’amore e non potrebbe essere altrimenti dato che la sceneggiatura è tratta dal romanzo dell’ex moglie di Stephen Hawking, Jane Wilde, e che racconta lo scienziato dal suo punto di vista di ragazza innamorata sin dal college che decide di sposarlo e di dedicargli la sua vita nonostante – o forse proprio perché – al giovane Stephen sono stati dati un paio d’anni di vita: un punto di vista assai interessante che però nel film, e non so nel romanzo che non ho letto, non viene scandagliato abbastanza perché poco edificante ancorché realistico: l’amore da crocerossina alla “io ti salverò” che ha una scadenza sulla confezione, la morte del consorte. Se a Jane avessero detto che Stephen sarebbe vissuto molto a lungo superando tutte le dolorose tappe della malattia che oltre a togliergli l’uso del suo corpo (ma non del membro virile che è un muscolo involontario e non risponde quindi al cervello, come argutamente Hawking rispose a un amico curioso dell’argomento) gli ha infine tolto l’uso della parola, probabilmente la nostra eroina avrebbe detto: mi dispiace ma no grazie. Invece hanno avuto tre bei figli e una lunga e appassionata e dolorosa e troppo lunga vita coniugale che alla fine ha naturalmente esaurito, senza drammi e senza rancori, il flusso di un amore che aveva altre e più tragiche aspettative. E oggi Stephen Hawking è ultraottantenne.

Detto questo il film è molto bello e proprio grazie alla sua trama da love story tiene sempre desta l’attenzione su questo genio dell’universo e dei buchi neri che attraversa tutta la sua malattia non senza una forte dose di ironia. Eddie Redmayne, che finora è stato utilizzato come comprimario e antagonista cattivo e in queste vesti lo si può rivedere nel fantasy “Jupiter”, è un interprete sorprendente e da studente non bello e occhialuto ma simpatico si trasforma nell’astrofisico su sedia a rotelle che tutti più o meno conosciamo con sorprendente adesione mimetica: Golden Globe come miglior protagonista in un film drammatico e candidato all’Oscar e ad altri premi ancora. E si sa che le disabilità portano sempre bene ai loro interpreti e cito a memoria: “Profumo di Donna” con Vittorio Gassman poi rifatto da Al Pacino, “Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo” con Jack Nicholson, “Rain Man” con Dustin Hoffman, “The Elephant Man” con John Hurt, “Ragazze Interrotte” con Angelina Jolie, “Il Mio Piede Sinistro” con Daniel Day Lewis, “Buon Compleanno Mr Grape” con Leonardo DiCaprio, “Forrest Gump” con Tom Hanks, “A Beautiful Mind” con Russell Crowe, senza dimenticare “Figli di un Dio Minore” sui non udenti, e l’interessante “The Sessions” film indipendente da festival, e l’antesignano “Freaks” in bianco e nero del 1932. E chi ricorda altri titoli li aggiunga nei commenti.

Candidata al Golden Globe che le è sfuggito ma anche all’Oscar che ancora non si sa è Felicity Jones che col suo faccino carino ma da donna comune interpreta la coraggiosa moglie a scadenza in un ruolo assai più difficile perché fatto di sole sfumature e palpitazioni quasi da dietro le quinte. Annoto che il film ha vinto il Golden Globe anche come miglior film drammatico e per le musiche originali di Johann Johannsson, categorie per le quali è altrettanto candidato agli Oscar. Completano il cast nei ruoli principali: David Thewlis come professore e mentore, Charlie Cox come dolce vedovo maestro di musica e poi nuovo amore dell’esausta moglie, Emily Watson come la di lei madre. La regia è di James Marsh e altri premi arriveranno.

Trilogia dello Hobbit, ovvero la mancanza degli occhioni blu

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Conclusa quest’altra trilogia che come spettatore mi ha preso gli ultimi tre anni posso ora dire la mia. Con la prima trilogia del “Signore degli anelli” ho scoperto un mondo, letterario prima che cinematografico, che mi era totalmente sconosciuto, e me ne sono talmente appassionato che ho anche comprato e letto (ahimè non totalmente) il librone. Oltre al volume che Andy Serkis ha pubblicato, con ricco corredo fotografico come si dice, sul suo straordinario (straordinario anche perché al servizio di una tecnica d’avanguardia) lavoro di creazione di Smeagol/Gollum. Sono dunque stato un grande fan dell’epopea cinematografica e, tenutomi informato sulla lavorazione di questa seconda, me ne sono fatto un’idea forse preconcetta che però andando in sala ho dovuto confermare: fondamentalmente l’impresa (tale e quale l’altro trittico prequel di “Star Wars”) è più un’impresa commerciale che artistica, tesa a rastrellare i soldi dei milioni di fans irretiti da Frodo e dalla sua Compagnia dell’Anello. Questo non significa che “Lo Hobbit” sia cinematograficamente debole, tutt’altro, ma non può che generare delusione e senso di dejà vu, oltre che nostalgia per i personaggi che abbiamo amato nella prima trilogia, in testa proprio lo hobbit Frodo di Elija Wood che con i suoi tristi occhioni blu ha fatto innamorare grandi e piccini, donne e uomini, etero e gay, di tutto il mondo: secondo un preciso studio gli occhi grandi, tipici dei neonati, susciterebbero in ognuno di noi sentimenti amorevoli, e dato che i soldi sono yankee è molto meglio se i grandi occhioni sono pure blu, e di fatto in base a questo studio l’alieno E.T. è stato creato con gli occhioni blu e altrettanto, all’epoca, eravamo tutti pazzi di lui. E voglio concludere questa digressione con l’iconico Gesù dagli occhi blu, versione relativamente recente di un Gesù comunque sempre rappresentato come castano chiaro o biondo: fermo restando che egli avrebbe potuto essere realmente biondo, è più probabile e credibile che fosse un tipo mediterraneo. Ma chi si sarebbe inginocchiato davanti a un Gesù dai tratti ebraici (non dimentichiamo che era ebreo per nascita) in quei secoli in cui gli ebrei erano reietti dalla società? e oggi, più che mai, chi si fermerebbe a pregare un Gesù barbuto e dai lineamenti minacciosamente mediorientali?

Martin Freeman qui è la dignitosa versione giovane di Ian Holm nell’interpretare quel Bilbo Baggins primo portatore dell’anello magico e, ahilui e ahimè, non ha gli occhioni blu, quindi sono rimasto tiepido davanti alle sue disavventure. Ma la colpa è anche della compagnia, che non è più (o non ancora secondo i tempi narrativi) quella eterogenea dell’Anello ma è qui composta da tredici Nani capeggiati da  Thorin Scudiquercia interpretato da Richard Armitage e ingentilita dal nano giovane e belloccio Kili, interpretato da Aidan Turner, l’unico nano senza trucchi prostetici a deformargli il faccino, che è protagonista di una tragica storia d’amore interrazziale con l’elfa reietta Tauriel di Evangeline Lilly protetta dal Legolas di Orlando Bloom che secondo la storia originale non dovrebbe neanche essere in questo film e che è una di quelle libertà narrative che si è presa il regista Peter Jackson per rimpolpare il prequel di volti noti. Ritroviamo anche Ian Mckellen/Gandalf, Cate Blanchett/Galadriel, Hugo Weaving/Elrond e il grande vecchio Christopher Lee/Saruman che nella vita reale è quasi sulla sedia a rotelle e qui, grazie a effetti speciali e controfigure, duella alla grande coi cattivi orchi.

Ricapitolando: questo prequel è carente di occhioni blu, personaggi accattivanti, storia avvincente, unitarietà narrativa e, soprattutto, di quella forza oscura insita nell’anello e che aveva fatto schiavo Gollum e contro la quale hanno lottato sia Bilbo che Frodo. Qui la cupidigia è solo quella per il potere e per l’oro, magnificamente raccontata in Thorin, ma banale rispetto alla grandezza tenebrosa del potere dell’anello. Altro momento cinematograficamente grandioso è la battaglia sul fiume fra i Nani e gli Orchi del secondo capitolo, “La desolazione di Smaug”. Per il resto le vedute naturali della Nuova Zelanda sono sempre mozzafiato, meravigliosamente fuse con le fantastiche scenografie sia fisiche che virtuali, i film tutti di oltre due ore scorrono velocemente a conferma dello spettacolo magistralmente confezionato, ma nell’insieme la tentazione della noia ci aspetta all’uscita dal cinema insieme al dubbio di non aver capito tutto l’intreccio dei rapporti fra i tanti personaggi e la certezza che gli stessi non hanno conquistato i nostri cuori. Con l’amara sintesi che se ne sarebbe potuto fare a meno.

Completano il cast: Luke Evans come Bard l’Arciere, Lee Pace come l’Elfo Thranduil, Ryan Gage il comico lestofante Alfrid, Stephen Fry come borgomastro. Nel doppiaggio ci perdiamo le voci di Manu Bennett come cattivissimo Orco Azog e Benedict Cumberbatch che fa parlare il Drago Smaug.

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