Archivio mensile:settembre 2014

Un ragazzo d’oro

Quando vado a vedere un film di Pupi Avati ho le stesse aspettative che se entrassi in una concessionaria di usato sicuro: niente sorprese per un prodotto di media qualità. Per quanto egli sia un autore cinematografico di tutto rispetto che si è ritagliato un posto nella cinematografia italiana e nel nostro immaginario di spettatori. Ma diciamocelo: tranne qualche divagazione tutto il suo cinema, sempre sentimentale sia in chiave drammatica che brillante, è un cinema che attinge sempre alla sua memoria e alla sua provincia senza però avere mai il guizzo geniale di un “Amarcord”.

Stavolta però in qualche modo è riuscito a sorprendermi: qui racconta una storia moderna, benché sempre puntellata su ricordi di infanzie passate, e vi si affacciano psicologa e psicofarmaci piuttosto che il salutare bicchiere di vino dei bei tempi andati. Ma per quanto non ambientato nella sua amata provincia bolognese bensì fra una nevrotica Milano e una pacioccona Roma, e non abitato dalle sue maschere stralunate che hanno fatto la fortuna di un caratterista troppo sopravvalutato come Neri Marcoré, questo Ragazzo d’Oro rimane sempre provinciale per l’ispirazione: il mondo del cinema scollacciato e sporcaccione degli anni ottanta, quello di Renzo Montagnani e Alvaro Vitali, regno di parolacce pernacchie e scoregge e belle figliole prosperose e discinte.

Il ragazzo d’oro del titolo è un pubblicitario con disturbi della personalità interpretato al suo meglio da Riccardo Scamarcio… ma attenzione: non dico che il suo meglio è il meglio che c’è: è il meglio che lui può fare col suo talento, che ha, ma ancora abbastanza rozzo colpa anche della cinematografia italiana che non offre granché. Qui il personaggio è davvero molto interessante anche se a mio avviso qua e là lacunoso nella scrittura. Questo ragazzo d’oro, diciamo una perla di ragazzo, ridà vita letteraria al padre appena scomparso che non ha avuto il tempo di mondarsi da un passato di sceneggiatore pecoreccio con un romanzo importante di cui lascia solo l’idea: il bravo figliolo si cala nelle vesti del padre, anche fisicamente, e scrive il favoleggiato manoscritto mai scritto a suo nome, regalandogli fama e premi postumi, primo fra tutti quel Premio Strega che, ancora una volta, è un concentrato di provincialismo.

Gli stanno intorno, ognuno davvero per conto proprio dato che tutti insieme non formano un cast credibile, Cristiana Capotondi all’ennesima occasione mancata, colpa di nuovo di una sceneggiatura poco elaborata; la rediviva Giovanna Ralli che fa del suo meglio per credere al suo personaggio di vedova e madre affranta; e la – oddio che ci fa qui? – star hollywoodiana Sharon Stone in un ruolo che scommetterei era stato scritto per Edwige Fenech: un’attricetta straniera di quei filmacci di cui sopra che nella bella mezza età si è riciclata come editrice ed intellettuale. La Fenech oggi fa la produttrice e voglio assolutamente sapere perché quel ruolo non l’ha recitato lei! Ma tornando a Sharon Stone: porta nelle inquadrature il suo peso di star e nient’altro e anche se ammicca e sorride con maturo distacco si vede che anche lei non crede a quello che fa, tanto quanto la doppiatrice di madre lingua inglese che le dà il giusto accento straniero ma che è assolutamente piatta e fuori sincrono: sono rimasto a vedere tutti i titoli di coda per vedere chi fosse ma non ce n’era traccia.

Tutto sommato un film un po’ diverso con spunti e momenti interessanti nella filmografia dell’autore Avati, e spero sempre che ce ne saranno altri anche se tutti si porteranno dietro questo sapore di provincialismo: del resto è l’usato sicuro e da lui non mi aspetto altro.

Due perline in chiusura: 1) a proposito di sceneggiatura poco attenta: il protagonista dice che suo padre aveva 65 anni e subito penso: che ci fa l’ottantenne Giovanna Ralli nel ruolo della moglie? bastava correggere lo script e dire che il morto ne aveva 75. 2) La partecipazione straordinaria di Valeria Marini come affranta e definitiva attrice di quel cinema che si è trasformato in cinepanettoni: piange quattro parole quattro ed è davvero straordinaria per l’inespressività di quel gommone che ha al posto delle labbra.