Archivio mensile:giugno 2014

Jersey Boys

Strano film musicarello per la regia del sempre brillante Clint Eastwood che qui porta sullo schermo la storia di quattro ragazzi italo-americani della provincia, il New Jersey appunto, tratta a sua volta dal premiato musical andato in scena a Broadway, che racconta la storia vera dei “Four Seasons”, band di successo fra gli anni ’50 e ’60 che ha lanciato quelli che oggi sono dei classici del rock melodico. Un racconto che va dagli esordi in cui i primi elementi del gruppo entravano e uscivano di prigione perché delinquentucoli di quartiere fino allo scioglimento per i troppi dissapori – sai che novità – fra i componenti, dove primeggiano Tommy De Vito che, benché motore del gruppo rimane nell’animo un delinquente, e la “voce d’angelo” che lui ha voluto nella band, Frankie Valli. Tommy è interpretato da Vincent Piazza, interessante giovane attore italo-americano già Lucky Luciano nel televisivo gangster-serie “Boardwalk Empire” mentre l’interprete di Frankie è lo stesso che è stato premiato per l’interpretazione a teatro, John Lloyd Young: una vocetta che arriva a un falsetto oggi improponibile perché ridicola ma che all’epoca fece scalpore e molte imitazioni regionali: noi negli anni ’70 abbiamo avuto i “Cugini di Campagna” con ben più modesto corredo musicale. Terzo componente era il frustrato Nick Massi, che messo sempre in ombra dalle personalità più forti ha il suo bel sfogo finale, della serie “quanno ce vò ce vò e mò t’ho detto!” interpretato da Michael Lomenda, per finire con l’autore di testi e musica Bob Gaudio, interpretato da Erich Bergen, che con la voce Frankie Valli daranno vita a un sodalizio che durerà nel tempo, fino al film di cui sono anche produttori esecutivi. Degno di nota il grande Christopher Walken che gioca a fare il boss di provincia in un film che è molto gradevole se ami i musical e il rock melodico e le biografie. Altrimenti va visto come un altro tassello nell’eccellente filmografia del regista Eastwood… solo che mi chiedo: ma che c’entra?

X-Men, giorni di un futuro passato

Li ho visti tutti, mi piacciono i super eroi e gli effetti speciali… ma, come pure si dice: visto uno visti tutti. In questo caso basta che sullo schermo scorrano le prime immagini e rivediamo i soliti super perché nella mente ritornino fatti e situazioni, tessitura della trama e dei rapporti fra i personaggi, a dimostrazione che dopo anni la saga è entrata a far parte della nostra cultura cinematografica. Dopo che in “X Men – L’Inizio” il cast si è arricchito con Michael Fassbender e James McAvoy come Magneto e Xavier da giovani, mentre da vecchi e originali sono Ian Mckellen e Patrick Stewart, non si poteva più fare a meno delle nuove star più sexy delle vecchie e così in questo capitolo passato e presente coesistono in una trama sempre ben costruita ma di cui poco ci importa se ci sono delle belle battaglie fra super poteri. Altre star irrinunciabili Halle Berry come stanca Storm, Hugh Jackman come Wolverine che incomincia a mostrare troppe rughe e Jennifer Lawrence in grandissima ascesa dopo i due “Hunger Games” e l’Oscar per “Il lato positivo”. New entry con super poteri nuovi e spettacolari, che proprio per questo sono la parte migliore del film, è Evan Peters star del fanta-horror tv “American Horror Story” qui nei panni di Quicksilver mentre nel viavai di supereroi ritroviamo Ellen Page/Kitty Pride, Nicholas Hoult/Beast, Shawn Hashmore/Iceman.

Nel composizione di quest’ultimo cast c’è il colpo di genio che è anche la grande occasione mancata per dare un colpo d’ala al film di genere: il bravissimo attore nano Peter Dinklage, già Golden Globe per il televisivo “Il Trono di Spade”, qui è nei panni del professore cattivo che vuole annientare gli x-men. La genialità sta nell’avergli dato il ruolo di persecutore dei mutanti – ma non la motivazione: il suo essere un mutante di bassa statura ma senza super poteri. E’ chiaro che in questo genere di film non c’è spazio per la psicologia ma sarebbero bastate un paio di battute ben piazzate per fare del nano un gigante di frustrazione e cattiveria. Siamo più dalle parte dell’attore di successo che acquista potere contrattuale e scavalcando i ruoli interpreta personaggi scritti per “normo dotati”, come a dire che la sua bravura di interprete ci fa dimenticare che è nano: accadde lo stesso a Whoopy Goldberg negli anni ’90, quando reduce dal successo de “Il colore viola” ricoprì dei ruoli scritti per attrici bianche e anche lì il talento scavalcava i generi… ma a dimostrazione che la potenza dell’interprete non sempre è convincente come asso piglia tutto, quella carriera piano piano finì: è una sorta di razzismo di ritorno, dove per dimostrare che non si è razzisti si passa sopra le naturali differenze come se non esistessero. Mentre il non-razzismo sta nell’accettare e valorizzare queste differenze. Speriamo dunque che Peter Dinklage non finisca anche lui nel tritacarne dello star system.

“La mafia uccide solo d’estate” ma l’ego autorale uccide sempre

La critica ne parlava bene e i miei amici pure ma io l’avevo perso, e adesso sono riuscito a recuperarlo dato che è tornato nelle sale dopo il premio come miglior regista esordiente a Pierfrancesco Diliberto in arte Pif. Il film avrebbe potuto essere un piccolo capolavoro se non fosse stato che Pif, intrattenitore televisivo, si prende il ruolo del protagonista che per tutto il film racconta la storia con voce fuori campo: all’inizio mi sembrava una gag, tanto la voce del narratore era stonata e con uno strano birignao da idiota!… ma poi è stato subito chiaro che quella era la sgradevole voce da cartone animato che avrebbe commentato tutto il film: la storia di formazione del bambino Arturo che nella Palermo degli anni Ottanta è testimone, quasi in diretta dalla città e dal telegiornale, degli omicidi di mafia: Rocco Chinnici, Boris Giuliano, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino… Momenti tragici di cui rimarranno a Palermo solo delle targhe a memoria, raccontati con gradevolissima e intelligente leggerezza e intrecciati al percorso formativo del bambino interpretato da Alex Bisconti che per simpatia e bravura cinematografica straccia e asfalta il suo alter ego adulto interpretato da un Pif non bravo attore e neanche simpatico. Di spalla l’eterna passione amorosa di Arturo che da grande è interpretata da una sempre piacevole Cristiana Capotondi che però avrebbe potuto risparmiarsi e risparmiarci (altro scivolone del regista?) il finto dialetto palermitano dato che il suo personaggio è cresciuto in Svizzera e più credibilmente sarebbe potuta tornare a Palermo senza accenti dialettali: questo a mio avviso dimostra la scarsa capacità di lettura del personaggio e la volontà di fare macchiette a tutti i costi. Scivoloni, appunto, e non pochi, che portano il bel film, scritto molto bene, sul piano del filmetto televisivo, a riprova del fatto che fanno bene gli americani che prima di aprire il borsellino agli “autori tuttofare” gli fanno sudare sette camicie: mi auguro che Pierfrancesco Diliberto (già assistente di Marco Tullio Giordana ne “I cento passi”) faccia altri bei film, così come mi auguro che Pif non esca più dal piccolo schermo.