Archivio mensile:Maggio 2014

“Maps to the Stars”: falling stars, risings stars, boring stars

A fine film la signora seduta accanto a me ha mormorato “Che tragedia!” e suo marito s’è messo a ridere: questo dice tutto del film. Un film che è un inganno sin dal titolo che fa romanticamente pensare a una mappa stellare e invece la mappa è quella di Los Angeles per trovare le ville delle star cinematografiche, e l’inganno mi sta bene così imparo a fare il romantico. Ma d’altronde che mi potevo aspettare da David Cronenberg, sempre votato alla violenza psicologica che si riverbera nella violenza fisica e viceversa? Io mi aspetto grandi film, e mi vengono subito in mente in due che ha girato con Viggo Mortensen: “A history of violence” e “La promessa dell’assassino”. Ma ultimamente Cronenberg sembra essersi raffreddato e dopo il non necessario dramma psicanalitico “A dangerous method” e l’ancor più gelido “Cosmopolis” che però esplora nuovi terreni, qui si affida a una sceneggiatura di Bruce Wagner che sarebbe stato meglio lasciare nel cassetto perché, a mio avviso, è tutta “troppo voluta”: storia corale di star in ascesa e altre in caduta libera dove la regola che vale per tutti, senza distinzione, è la nevrosi riccamente condita da droghe e psicofarmaci, ovvio; una storia dove nessuno si salva, neanche per sbaglio, neanche il cane, e non perché io ami gli happy endings ma davvero perché questa mancanza assoluta di speranza sembra tutta costruita a tavolino per raccontarci che dalle parti di Hollywood sono tutti brutti e cattivi nessuno escluso, e la morale ormai vecchiotta è che le colpe dei padri ricadono sempre sui figli. Trama da tragedia greca che si prende troppo sul serio e diventa grottesca spingendo al limite la pazienza dello spettatore con le allucinazioni in cui compaiono fantasmi che parlano troppo e non dicono niente. Brutti e cattivi, dicevo, anche visivamente, e se Julianne Moore si porta a casa il meritato premio come migliore attrice a Cannes mostrandosi fragile e sgradevole ma sempre affascinante anche se piena di rughe sotto una fotografia impietosa, la stessa fotografia fa di John Cusack – che è sempre un bravo attore ma ha il fascino di una zucchina bollita – un mostro invecchiato male e truccato peggio. La giovane Mia Wasikowska che ha sempre mostrato il suo fascino puro e acerbo, qui giocandosi la carta della bruttezza ci guadagna in credibilità artistica e il suo ritratto di ragazzetta scialba e sfigurata, nonché pazzoide ovviamente, è assai credibile. Anche Olivia Williams, nevrotica – e come sarebbe possibile altrimenti? – moglie dello pseudo-psico-terapeuta Cusack, cede al fascino della ruga in primo piano e anche lei lo fa con gran classe. Rimane inevitabilmente belloccio –  per chi lo crede belloccio ma per me ha l’occhio moscio – il Robert Pattinson che dopo aver fatto strage di cuori teenager come romantico vampiro s’è rifatto il look di attore serio col precedente “Cosmopolis” di Cronenberg dove era un giovane magnate che praticamente viveva nella sua limousine: qui è un giovane attore di belle speranze che la limousine la guida per pagare le bollette e anche se il suo ruolo è il più normale – ma dev’essere stata una svista dello sceneggiatore… – lui lo rende in modo naturale e credibile. Come altrettanto naturale, e anche di più, è il tredicenne Evan Bird che fa la giovanissima star, ovviamente in full immersion di nevrosi droghe e allucinazioni, che non si risparmia nulla: credo sia lui la vera rivelazione del film e se nella vita reale non farà la stessa fine del suo personaggio e di altre celebri giovani star sentiremo ancora parlare di lui. In conclusione, motivi per vedere il film: se sei un fan di David Cronenberg; se sei un fan di Julianne Moore; se sei un fan degli psicofarmaci. Altrimenti lascialo passare, senza perderci una serata, persino in tv, quando sarà.

“Grace di Monaco” e di rotocalchi

Non ci sono più i bei filmoni biografici di una volta, come quello sulla vita di Edith Piaf per intenderci, diretto dallo stesso Olivier Dahan che con questo film fa il bis del biopic come pomposamente dicono gli americani. Questo tipo di biografie cinematografiche, che non possono più definirsi tali se per “biografia” si intende il racconto di una vita, scelgono di concentrare il racconto attorno a un momento specifico, vedi “Hitchcock” che parla della messa in opera di “Psycho” o “Marilyn” che s’incentra sulla lavorazione di “Il Principe e la Ballerina”: dunque sono solo capitoli di una biografia. Il lato positivo è che si va più nel dettaglio della vicenda che si è scelto di raccontare e ci si allontana dal pericolo di fare un film superficiale pur di coprire l’intera vita di un personaggio. Aprendo il 64mo Festival di Cannes questo film ha lasciato molti molto perplessi, e a ragion veduta. Racconta un momento cruciale per la vita di Grace che da un lato è tentata dal suo amico Hitchcock che le propone il copione di “Marnie” e dall’altro si trova intrappolata nel suo ruolo di principessa non ancora amata dai monegaschi perché lei stessa non si è veramente calata nel ruolo né resa conto di cosa il ruolo comporti. Coincidentalmente Ranieri di Monaco è in gravissime difficoltà col governo francese presieduto da De Gaulle che vuole annettere il principato alla Francia. Il film dunque ci racconta un passaggio tragico, fatto di intrighi di palazzo e drammi personali, con Grace messa davanti alla scelta della sua vita: diventare davvero “la” principessa e scegliere di salvare il principato e anche il suo matrimonio da favola. Favola che, scopriamo, non è così favolosa come ce l’hanno raccontata i rotocalchi dell’epoca: Ranieri ha sposato Grace Kelly non per amore ma perché al principato serviva una principessa patinata e Padre Tucker (un Frank Langella un po’ sottotono) consigliere spirituale di Grace, rivela d’essere più che un confessore, un vero manipolatore. Intorno poi si muovono figure come Aristotele Onassis che avendo interessi economici nel principato agisce come spregiudicato consigliere politico di Ranieri e la sua compagna Maria Callas relegata al ruolo di onesta confidente di Grace. Insomma, il pacchetto prevede la favola della borghesuccia americana che diventa una vera principessa, come nei sogni delle ragazze d’oltreoceano, dato che gli americani essendo progenie di poveri emigrati europei non hanno principi e principesse in proprio; e poi sfarzo di stucchi ori e specchi, acconciature gioielli e abiti firmati, contorno di personaggi famosi che inevitabilmente figurano come macchiette di lusso, insistiti primi piani sulle lacrime di Nicole Kidman che pare essersi liberata dal fardello del botulino, il clamoroso falso storico dato che la crisi con la Francia era avvenuta anni prima dell’arrivo di Grace a Monaco, tenere scene familiari con i piccoli Alberto e Carolina che si chiedono perché mamma piange, scene da intrigo internazionale e sordide lotte familiari, un Ranieri di Monaco (il sempre ottimo Tim Roth) preoccupato solo del destino del suo principato e che guarda alla sua principessa solo come una sfavillante acquisizione mentre Grace si lacera l’anima per capire cosa vuole da lei la vita: un’intelligente sequenza a inizio film ce la mostra disperata alla spericolata guida della sua macchina sportiva sui tornanti del principato con mancato incidente, lanciando per noi un’occhiata sul futuro incidente in cui realmente Grace di Monaco perderà la vita. Il film nell’insieme è gradevole e scorre bene anche se la sensazione è quella di una versione cinematografica dei rotocalchi d’epoca ma con l’aggiornamento di uno sguardo sul lato oscuro. Comprimari di lusso: Roger Ashton-Griffiths come credibile Alfred Hitchcock, Robert Lindsay come Aristotele Onassis e Paz Vega come Maria Callas alla quale non  mancano di far cantare l’aria famosa, Derek Jacobi come divertito e compiaciuto maestro cerimoniere, Parker Posey come gelida e intrigante segretaria di palazzo. In conclusione: un film che può rilanciare la carriera appannata di Nicole Kidman e che potrebbe farle raccogliere qualche candidatura a qualche premio qua e là, ma che rimane un film da pomeriggio con le amiche pensionate che da giovani sognavano sulla Grace patinata, o da serata da pensionati a casa davanti alla tivvù con un buon bicchiere di vino.